In punta di corda

Questa mattina sul treno c’erano sei veneti. Gli uomini erano alti. Neanche sembravano italiani, tranne uno riccioluto che sembrava un salumiere simpatico uscito da uno spot TV della mortadella. Ascoltavo di nascosto la loro cantilena, le loro doppie inesistenti, la loro t quasi sui denti. Non mi sembrava molto distante dalla parlata degli argentini.

Erano tutti allegri, probabilmente sono venuti a incontrare qualche parente che vive qui. È strano trovare dei turisti nella zona dove vivo io – è abbastanza lontano dalla Capital. Tutti portavano gli occhiali da vista, un segno che mi aveva subito colpito quando mi sono trasferita qui: in Argentina sono pochissime le persone, sia giovani che anziane, che portano le lenti. Credo questo fatto riveli molto lo scarto nella qualità della vita al di qua dell’Atlantico, insieme allo stato delle dentature.

Il Veneto non lo conosco bene, ma ci sono stata poco prima di partire per l’Argentina: le fabbrichette, le fabbriche, le villette e le villone, le macchine e le macchinone. La zona tra Vicenza e Padova mi è sembrata una Svizzera italiana; ho pensato che mi sarebbe piaciuto vivere lì – si respirava benessere. In occasione di quel viaggio, ho sentito tanti di questi imprenditori lamentarsi di come sono cambiate le cose: della concorrenza sleale dei cinesi, delle regole sempre più rigide e delle imposte sempre più alte. “Non è più come una volta”, sentenziavano inevitabilmente tutti. Io me li ricordo negli anni ’80 e ’90 che sempre sorridevano mentre sornioni ti dicevano “C’è tanto lavoro”. Quella è gente che sta in fabbrica dalle 6 alle 20 a lavorare, altro che i dirigenti che stanno dietro la scrivania e osservano gli operai da dietro il doppio vetro del loro ufficio!

Sempre oggi, ma qualche ora più tardi, aprendo La Repubblica per avere qualche notizia sulle elezioni americane, mi ritrovo questo articolo: In un film verità i morti dimenticati del Nordest in crisi. Leggendo il sottotitolo mi si è gelato il sangue: Dal 2012 più di 800 piccoli imprenditori si sono tolti la vita dopo il fallimento dell’azienda. Ottocento persone che si sono suicidate in quattro anni… e solo nel Nord-Est. Più di tutte le persone che ho come amici su Facebook. E in genere si suicidano gli uomini, i padri di famiglia e capitani d’impresa… per cui immaginatevi la quantità di persone coinvolte in queste tragedie.

Ma dove eravamo? Perché emerge solo adesso? Perché 800 di queste morti, da sole, non hanno prodotto rumore? Vorrei poter contare se su La Repubblica sono apparsi 800 articoli in questi quattro anni per rivelare queste morti. So già la risposta: ce ne saranno sì e no una decina. Avranno fatto un piccolo rumore solo quelli messi peggio: quello che ha perso di più, quello che aveva più dipendenti, quello che ha compiuto il gesto nel modo più  tragico.

Oltre a quegli 800 che hanno compiuto il tragico gesto, ce ne saranno almeno dieci volte tante che ci hanno pensato – e magari provato – ma senza portare a termine l’idea.

Mi sono sentita come una che è scappata da una guerra. Perché io in Italia probabilmente ci sarei rimasta se avessi potuto sopravviverci con quel che guadagnavo (e come me, molti altri). Invece no. L’offuscamento burocratico, l’impossibilità di avere un’idea delle spese di avvio di un’attività, le tasse soggette a una miriade di variabili e all’interpretazione del proprio commercialista, una classe politica fatta di arroganti e incompetenti che pensa solo al proprio interesse. È una sfida ad armi impari.

L’angoscia mi assale ogni volta che leggo i giornali italiani, ogni volta che ripenso agli ultimi mesi in Italia e ai miei amici che sono rimasti lì. Provo a immaginarmi l’Italia del domani e non ci riesco. Ci sarà altra gente, si respirerà un altro clima, di sicuro non si vivrà con leggerezza o con spensieratezza. Che vita sarà?

Dietro a me, c’è un paese di terra bruciata. Davanti a me, un campo incolto. Sarà rozzo, sarà incivile, sarà meno avanzato… ma la gente in Argentina vive più felice.


Aggiornamento.
Ecco un toccante servizio della Rai sulla situazione degli imprenditori nel Nord-Est:

I dieci comandamenti – La rivoluzione industriale

Le voci degli imprenditori disperati che cercano di difendersi dalla crisi che li attanaglia. Domenico Iannacone compie un viaggio intimo nella vita di chi ha deciso di farla finita e di chi lotta per salvare se stesso e quello che ha costruito in tanti anni di sacrificio. La vita di piccoli e grandi imprenditori che cercano come possono di difendersi dalla massificazione industriale e dalla concorrenza asiatica

21 pensieri su “In punta di corda

  1. Ciao Isa
    Complimenti, per il tuo articolo. Purtroppo hai punto un argomento molto delicato. I suicidi di tanti imprenditori, spesso vessati dal nostro stato, poi addirittura abbandonati dallo stesso.

    Ho riflettuto molto negli ultimi anni su questo fenomeno (che di striscio ho vissuto sulla mia pelle anche), e su un altro: la fuga degli italiani negli ultimi 10 anni, che arriva a sommare quasi 2 milioni di persone (per avere un’immagine plastica è come mettere insieme due metropoli odierne come Torino e Napoli, e far finta che non ci siano più… oppure come far finta che Sardegna e Friuli si fossero spopolate fino a desertificarsi).

    Perchè è successo tutto questo. Perchè un italiano (veneto o siciliano o chicchesia), deve sentirsi così abbandonato da togliersi la vita. Perchè un neolaureato, un neodiplomato, o un idraulico, deve fare valigie ed andare in Germania, in Francia, in Inghilterra, oggi come nel 1900 in Sudamerica, come negli anni 30 e 50 in Nordamerica o in Nordeuropa.

    Sono stufo della “narrazione” tipica di questi ultimi 2 decenni, che vuole la nostra classe dirigente/politica espressione pedestre della società civile. Sappiamo bene di come la società civile sia molto spesso foriera di cattivi esempi, però è altrettanto vero, che la società civile di questi esempi non abbia alcuna rappresentanza a difenderla. Che la nostra classe dirigente, abbia dimenticato in 20 anni questa fetta di donne e uomini, e continui a dimenticarne sempre di più. Negli anni 80, l’avvocato Agnelli (non un rivoluzionario cubano, o un intellettuale dell’intellijencia esistenzialista francese) diceva che la classe dirigente italiana, era peggio delle classi “subalterne” o lavoratrici del nostro paese.

    Repubblica, ma anche altri quotidiani, pochi giorni dopo la notizia sul numero di italiani emigrat in questi 10 anni, diede un numero relativo a quanto gli immigrati nel nostro paese, incidano sul Pil italiano, e quante pensioni si riescano a pagare grazie ai loro contributi. E questo mi lasciò un pò spiazzato per un semplice motivo; perchè lo stesso giornali non fece il calcolo di quanto PIL i nostri connazionali producono per i paesi in cui sono andati a lavorare, e quanto PIL avrebbero prodotto gli imprenditori suicidatisi, se lo stato non li avesse ignorati/vessati fini a condurli sul lastrico. Quante pensioni si riuscirebbero a pagare se oggi loro, lavorassero qui. Quanti soldi lo stato ha investito in nostri coetanei attraverso formazione/scuola/università, ed ora producono benessere e ricchezza altrove.

    Scusa la sfogo, e grazie per aver parlato di questo tema.

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  2. Cara Isa, permettimi di dissentire.

    La tua visione dell’Italia è troppo pessimista.

    I dati di cui parli sono veri ma il cambiamento è in corso.

    Ti parlo da startupper che da Milano si è spostato nel ricco Nordest. Certo per molti imprenditori di qui, che sono ex operai che hanno voluto realizzarsi con un lavoro autonomo, questa rivoluzione culturale che privilegia conoscenza e creatività è spiazzante.

    Ma noi siamo pronti ad aiutarli a stare al passo coi tempi poiché non si deve lasciare indietro nessuno.

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    1. È encomiabile il tuo lavoro, ma alla fine tutto si riduce a: quanto mi resta a fine mese? In Italia, un autonomo viene tassato suppergiù al 50%. Avevo letto tutti i dettagli qui: http://www.mrwebmaster.it/leggi-fisco/partita-iva-costi-tasse-guadagni_11752_3.html (interessante anche il commento in calce di Andrea che riporta la sua esperienza in UK). È un’emorragia ipercomplicata. Negli USA dai il lordo e le spese al commercialista e lui per 100-150 USD ti calcola il netto (in Italia il commercialista ti costa almeno €1000 all’anno, e a seconda del commercialista a cui ti rivolgi cambia l’importo delle tasse dovute – ma ti pare?!). Paghi in base a quanto incassi, niente anticipi obbligatori sulla base di proiezioni fantasmagoriche. Niente studi di settore. Se hai pagato troppe tasse, la restituzione del credito a tuo favore avviene in tempi dell’ordine di mesi (in Italia, ci sono aziende che falliscono per via dei tempi biblici di Equitalia: fulminei a incassare, fai in tempo a morire quando devono rimborsarti). Conosco molti italiani che per fare i freelancer se ne sono andati all’estero (UK e Spagna molto gettonate). Ma in Italia si ostinano a voler ipercomplicare le cose, anche se siamo all’asfissia!
      Credo che solo il 5% dei miei coetanei lavori in forma autonoma. In genere sono gli stessi che mi chiedono “Ma dove sei tu, potrei venire a lavorare?!”.
      Ed è un peccato perché l’inventiva, le conoscenze e l’iniziativa sono tratti tipici italici.

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      1. Cara Isa, hai perfettamente ragione tasse e burocrazia in Italia sono un peso eccessivo.

        Ciò detto, i nostri politici non sono stupidi sanno che è in atto una forte emigrazione verso l’estero di lavoratori italiani ed extracomunitari formatisi nel nostro Paese, di imprenditori, freelancer e pensionati.

        Hanno capito che se continua questa emorragia fra qualche anno faranno la fine della tenia assieme ai loro sodali e familiari, cioè moriranno di fame perché non ci saranno più polli da spennare.

        Infatti, per quanto riguarda i problemi suddetti stanno molto lentamente invertendo la rotta.

        La tendenza è tracciata. Bisognerebbe accelerare il passo.

        Spero che lo facciano poiché, come giustamente hai scritto, abbiamo grandi potenzialità.

        In caso contrario, Catalogna o Canarie… arrivo.

        Ho sempre amato lo stile di vita in Spagna

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  3. il post è indubbiamente un bello spunto di riflessione. Io vivo a Padova da 10 anni, ormai (meno i 3 anni cinesi), posso dire che è una zona che ha vissuto la crisi esattamente come il resto del nord Italia. Pochi, rari casi sono riusciti a uscirne completamente indenni.
    Paragonare la zona vicentino-padovana alla Svizzera è eccessivo. Qui si parla di piccoli imprenditori e artigiani, legati al territorio e con una visione strategica limitatissima. Al di là dei problemi che sono stati indotti dalla crisi.
    Sono d’accordo con Federico, la visione pessimistica dell’Italia è esacerbata dalla innata capacità italica di lamentarsi e di vedere sempre e solo il bicchiere mezzo vuoto.
    C’è molto fermento anche in Italia, a cui non si dà il giusto peso e il giusto spazio nei media. Ma qualcosa si muove. E non parlo di politica, ma parlo di innovazione, ricerca tecnologica, start up. Dobbiamo credere in questo futuro e io ci credo molto.

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    1. La Svizzera italiana a me non piace, però mi suggerisce quell’idea di fabbriche e lavoratori strenui e benessere economico che avevo visto nel padovano-vicentino. Già a Treviso il panorama era diverso, ma è impossibile confondere Veneto e Piemonte, per fare un esempio.

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    1. Macché! A ogni finale persa Messi frigna e dice che ha chiuso con la nazionale e puntualmente ritroviamo lui (e tutti i suoi amichetti) alla partita successiva. Adesso il crack sta sulle palle anche me!

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      1. Un esempio di cricca non solo italica. L’Argentina ha buttato via qualche mondiale e qualche Coppa America, non perchè Messi non si impegna in nazionale, ma perchè pretende di fare l’allenatore, il presidente federale nonchè il giocatore nello stesso tempo.

        La finale contro la germania potevano benissimo vincere, così come vincere a occhi chiusi contro il Cile.

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  4. Ciao Isa

    Non so perchè ma ti invio molti commenti, ma non mi compare in alcun modo notifica che ti siano arrivati e che siano in moderazione.

    Pietro

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