Sano celodurismo

Quando ero giovane e pivella e neolaureata, mi sono letta un libro sugli errori che le donne fanno sul lavoro. Il libro si intitola Nice Girls Don’t Get The Corner Office: Unconscious Mistakes Women Make That Sabotage Their Careers ed è stato scritto da Lois P. Frankel. In italiano lo trovate con il titolo Le brave ragazze non fanno carriera. 101 errori che le donne fanno sul lavoro.

Lo trovai illuminante. Vi riconobbi diverse azioni che compivo di riflesso e per buona educazione, tipo offrire un caffè a un ospite in ufficio o allargare il merito di un lavoro a una persona che vi aveva contribuito solo marginalmente, e che denotavano servilismo e il tipico ruolo femminile della buona padrona di casa e della donna modesta. Così smisi di offrire il caffè e cominciai a farmelo preparare e pagare, e quando questo non avveniva lo richiedevo esplicitamente.

Altre cose più subdole, tipo rifiutare l’ufficio più bello per modestia, invece di accettare l’offerta di buon grado e andarne orgogliosa, sono in effetti stupide e autolesioniste. Quando me ne offrirono uno, dissi di sì e ne fui felice. Quando mi tolsero di lì perché serviva spazio non fui altrettanto felice, ma sapevo che non era una punizione, ma questa è un’altra storia…

Per questo non sopporto chi si lamenta e si fa problemi quando viene riconosciuto sul lavoro. Se hai lavorato per ottenere qualcosa e finalmente l’ottieni, perché diamine ti scansi? Abbraccia il riconoscimento a piene mani e poi fai quello che vuoi: continua così o ambisci a qualcosa di più, ma non rifiutarlo o disprezzarlo. Fallo per autorispetto. Eppure le donne sembrano proprio avere questa vocazione samaritana, come se togliessero qualcosa a qualcuno. Chiedono persino l’approvazione del prossimo (o del pubblico, nel caso dei social media), descrivendo prima perché si sono meritate qualcosa e poi chiedendo se veramente se lo meritano.

Se ti vogliono pagare di più o se ti offrono una migliore posizione o un migliore ufficio, di’ grazie e complimentati con te stessa. Il discorso vale pure per gli uomini, ma non ho mai incontrato un uomo che dubitasse delle sue capacità. Anzi! Ricordo ancora un “collega” (virgoletto perché non l’ho mai conosciuto di persona, il nostro fu solo uno scambio virtuale) che mi scrisse “il tuo profilo mi sembra interessante, ma non darei mai lavoro a una persona che ha come utente di skype…“, seguito da un nome di fantasia che utilizzavo perché avevo letto che i nomi lunghi sono meno soggetti a spam.

La mia tentazione fu quella di rispondergli che con il suo cognome era meglio se si inventasse un nome commerciale se voleva avere successo, perché con un cognome come Tonto era la prima cosa da farsi, sicuramente prima di andare in giro a elargire consigli di marketing non richiesti ai colleghi, denotando peraltro scarsa professionalità. Invece incassai zitta, non risposti, ovviamente non ottenni il progetto per cui mi ero postulata. Invece, cambiai utente di skype, registrai un dominio, mi feci un sito professionale.

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E non cambiò granché, professionalmente parlando. Ma almeno avevo messo a tacere i potenziali Tonto sparsi per Internet. E soprattutto la vocina interiore del complesso d’inferiorità femminile.

 

Poi venne la superesperta di finanza che in un seminario propose al pubblico un esercizio. Proiettò un Power Point di un incarico di lavoro molto banale, con una descrizione completa del profilo del cliente – un cliente del settore del lusso – e chiese al pubblico quanto avrebbe chiesto per il proprio servizio. Le risposte andavano dalla richiesta sotto mercato, guidata dalla logica “prima mi accaparro il cliente e poi lavoro sulle tariffe”, alla richiesta al normale prezzo di mercato, che invece puntava tutto sulla presentazione (costo come gli altri, ma guarda come sono più professionale), alla richiesta di un prezzo doppio rispetto a quello di mercato, che invece faceva leva sul voler affermare, con un prezzo due volte il normale, di non offrire un servizio nella media, bensì superiore. Bene, la superesperta rivelò quanto aveva chiesto (e ottenuto) per quel lavoro: 100 volte la tariffa di mercato. Disse che una richiesta così sfrontata era un’affermazione molto chiara: sono la migliore e lo so.

Grande ammirazione, tutti a bocca aperta. Nessuno aveva superato la maestra. A fine incontro, durante il rinfresco, i partecipanti si scambiano i biglietti da visita. Anche la superesperta allunga il suo: un bigliettino spoglio in bianco e nero, con un indirizzo nome.cognome@gmail.com e un numero di telefono. Grande delusione.

Uno degli errori che vedo più spesso fare, sia da uomini e donne, è il fermarsi al titolo, al nome della mansione o dell’azienda. Una volta mi offrirono un lavoro a Milano, per me in un posto scomodissimo, dove era richiesta la partita IVA per un periodo di prova di tre mesi “e poi il cliente vedrà se confermarti per altri sei mesi“. Mi dissero, inizialmente, che cercavano una persona con esperienza, con la mia esperienza. Feci il colloquio con il cliente finale, al quale piacqui (e mi piacque) molto. Ma l’azienda intermediaria, che pure aveva assistito al colloquio, voleva giocare al ribasso, dicendo che in realtà la ricerca era per un neolaureato. Dissi all’uomo dell’intermediaria che quel lavoro per cui avevo fatto il colloquio bisognava saperlo fare, perché era un lavoro di consulenza e il consulente deve dare risposte, non farsi insegnare il lavoro dal cliente. Lui mi disse: vedi quello, il sesto piano, è dove ha l’ufficio Mister X (famoso manager italiano). Pensa come starà bene sul tuo CV dire che hai lavorato per l’azienda di Mister X. Io gli dissi che era lo stesso un lavoro sottopagato, anche se era per l’azienda di Mister X, lo ringraziai per l’opportunità e gli augurai buona fortuna. istock_000016421883small

Riconosco che per dare certe risposte bisogna avere le chiappe coperte e due spalle larghe e che non tutti sono nella posizione di avere entrambe (o anche solo una delle due). Durante un incontro tra ex compagni di università, chiesi a uno se aveva migliorato la sua posizione, dato che l’ultima volta che ci incontrammo si era lamentato che lavorava molto e lo pagavano poco, e in più doveva fare il pendolare cambiando due treni e prendendo la navetta aziendale. Mi disse tutto felice che sì, che dopo due anni lo avevano promosso a Coordinator o qualche altro titolo in inglese che non vuole dire niente. “Ma ti pagano di più?”, gli chiesi. “Eh, quello ancora no”, mi rispose. Gli dissi, senza troppi giri di parole, che era un fesso e si offese. Ma continuo a pensarlo. E lui magari sarà ora un Supervisor, ma lavora sempre di più e per gli stessi soldi.

Anche ora che sono freelance mi capita di ascoltare discorsi tra colleghi dove si parla di Tizio che lavora per X e Caio che ha un contratto con Y, dove X e Y sono istituti di prestigio a Buenos Aires. Ma dietro la patina del nome famoso, ci sono contratti sottopagati e precari e persone non qualificate per il lavoro richiesto. Ho così ribaltato il mio punto di vista e lo ribadisco con orgoglio: per fortuna posso permettermi di non lavorare per X e Y. Di certo non ho – né mai avrò né mi interessa avere – la fama o gli appoggi politici e istituzionali per competere con X e Y in quanto a immagine o nome. Ma non ne ho bisogno. Ripeto.

 

 

 

 

 

7 pensieri su “Sano celodurismo

  1. Ciao! Giusto oggi ero tentata di inoltrare il mio cv ad un’azienda per due differenti posizioni relative ai social media, poi ho riletto bene entrambe e ho rinunciato. In realtà in una è esplicitata la parola STAGE, mentre nell’altra era intrinseco il medesimo concetto. In effetti questi parlavano di un iniziale periodo di corsi formativi “molto costosi” che si sarebbero sobbarcati loro. La mia riflessione è stata: ok, potrei imparare a svolgere una professione in un ambito che mi piace, ma con quali rischi? Purtroppo non è il momento di tentare salti nel vuoto.

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    1. Pensa che qui ci sono moltissimi corsi per social media manager e credo che ci sia anche molto lavoro in questo ambito perché anche le attività più piccole hanno sempre molti contenuti sui social media. Per dire, anche locandine, banner e pubblicità sono sempre eseguiti con una grafica coerente e accattivante, se ci sono concorsi, eventi o promozioni hanno sempre degli hashtag pertinenti, ecc. Le poche pagine italiane che ancora seguo sono sempre molto sciatte, a meno che non siano di aziende affermate. Qui persino l’alimentari medio-figo ha una sua pagina di FB con poster, grafica, logo, ecc.

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  2. D’accordissimo con te! È bello poter dire di non aver bisogno di nascondersi dietro etichette/aziende altisonanti per giustificare delle condizioni di lavoro pessime. È un po’ il discorso che facevo nel mio post “Tu (non) sei il tuo lavoro”.
    L’argomento donne in carriera invece mi tocca da vicino. Un po’ perché io sono propensa a farmi prendere dalla sindrome dell’impostore, anche se non lo esprimo ad alta voce (a parte quando faccio delle conferenze a tema!). Un po’ perchè è veramente difficile farsi strada destreggiandosi fra sensi di colpa (sarò stata troppo stronza? troppo ambiziosa? troppo superba?) che provengono da un’educazione per cui, da buone donne, non dobbiamo pretendere troppo, che non sta bene. Sano celodurismo, nuovo mantra.

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  3. Cara Isa, proprio un bel post. Non ho mai letto il libro di cui parli, ma ho smesso di sottovalutare la mia professionalità, anche perchè, se non la valuto io, figurati quelli che mi devono pagare. Anche nel campo dell’insegnamento (almeno se sei un libero professionista) trovi un sacco di persone che vorrebbero pagarti poco, o anche meno. Certo poter dire NO è sempre un lusso, ma ormai io ho imparato a guardare dietro ai titoli altisonanti e ai complimenti falsi. Il miglior complimento che posso ricevere è essere pagata quanto valgo.

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    1. Ti ho pensato mentre scrivevo questo post, perché alcune riflessioni riguardano il mio attuale settore, che in parte coincide con il tuo. Quello che mi sorprende è che il mio attuale settore è prettamente femminile (al contrario del precedente, che era fortemente maschile) e ci vedo lo stesso atteggiamento. Se non parte da noi, il cambio non può avvenire.

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