Downshifting Vs. Sideshifting

Da qualche anno esiste il termine downshifting, che significa più o meno scalare la marcia nella vita.

Chi fa downshifting solitamente lascia un lavoro riconosciuto dalla società, di tipo intellettuale e molto esigente in termini di tempo (ad es. manager) per dedicarsi ad attività manuali considerate inferiori rispetto alla classe sociale di provenienza (ad es. artigiano, contadino). In generale, chi fa downshifting abbassa il proprio standard di vita secondo i canoni tradizionali della società consumistica,.

In un certo senso, anche io ho fatto downshifting: ho lasciato il primo mondo, il suo benessere, la sua sicurezza, per andare in Sud America dove alcuni prodotti o servizi non esistono e ci sono abitudini e culture diverse. Ho lasciato (o meglio, mi ha lasciato) un lavoro d’ufficio socialmente riconosciuto con contributi e forse un giorno la pensione, per dedicarmi al freelancing in un altro paese (ricominciando da zero). Del Sud America, sono andata nel paese più avanzato.

La differenza tra chi fa downshifting e me è che io sono finita in un posto dove certi beni non esistono proprio. Chi fa downshifting, semplicemente sceglie di non approfittare più dell’offerta che si trova di fronte. Per molti versi, sento che io quell’offerta non ce l’ho neanche più a portata di mano. E finalmente capisco perché qui la gente tenta in tutti i modi per ottenere un passaporto europeo: per avere una via di fuga.

Quando sono rientrata dalla mia prima vacanza in Italia, mentre ero Barajas ad aspettare l’aereo per Buenos Aires era tardi, e come al solito al terminal alle 23 c’eravamo solo noi dei voli per i grandi hub del Sud America: un aereo diretto a Sao Paulo e il mio diretto a Buenos Aires. Non ero felice di tornare, a dire il vero. Per la prima volta mi sono resa conto di quanto ho lasciato indietro.

Perché un conto è lasciare un ufficio a Milano e ritirarsi nell’appennino ligure a coltivare fragole e basilico, un conto è andare in un posto dove alcune cose non sono ancora arrivate, dove la qualità dei servizi è quella che è, dove almeno 3 volte all’anno ti pigli una intossicazione alimentare, dove sei a 10.000 km dal primo mondo e se hai un’emergenza ti attacchi.

Questa cosa mi sta mettendo ansia. Ultimamente me ne sono successe un po’, niente di grave, solo piccole cose a cui ho prestato attenzione per la prima volta nella mia vita solo perché non hanno funzionato come hanno sempre fatto. E se ho bisogno di qualcosa di importante che qui non c’è? E se mio marito per qualche motivo è indisposto e devo cavarmela da sola? Io non ho il savoir faire per gestire la napoletanità argentina! Io sono crucca dentro! Non saprei pagare una mazzetta, non saprei imbonirmi l’interlocutore, non sarei in grado di chiamare il call center 10 volte.

Poi con la faccia da straniera che mi ritrovo, se ne approfitterebbero e mi deriderebbero tutti. A volte mi sento in una di quelle situazioni che vanno bene solo per inconsapevolezza e che in 10 secondi potrebbero precipitare e trasformarsi in un incubo.

Oggi è uno di quei giorni in cui penso di avere fatto sideshifting: sono uscita di carreggiata per un po’, ma ora sono pronta per tornare ai problemi (e agli agi) del primo mondo!

9 pensieri su “Downshifting Vs. Sideshifting

  1. C’è chi il downshifting lo subisce, viene espulso dal mondo del lavoro, e quando rientra (se ci riesce) si trova ad un livello molto più basso e quindi abbassa anche i propri standard di vita. Si chiama comunque downshifting o cambia nome?

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    1. Interessante domanda: tutte le volte che si legge di downshifting sembra sia sempre una scelta volontaria, anche il fattore scatenante spesso non lo è (si resta senza lavoro per scelta di qualcun altro). Ma come si chiama quando uno il downshifting non vorrebbe farlo ma lo deve subire suo malgrado?! Direi italianamente “ridursi”. Def. di DOWNSHIFT: “3. To simplify or reduce one’s expectations or commitments, especially in work hours: “28 percent said that they had downshifted and voluntarily cut back on their income in some way … to reflect changes in priorities” (Carey Goldberg).” [http://www.thefreedictionary.com/downshift]

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  2. Cara Isa, bellissimo post. Non conoscevo la definizione di downshifting, per cui grazie dell’approfondimento.
    Sto studiando la seconda stagione della mia rubrica dedicata a chi è partito per l’estero (questo post lo prenderò sicuramente in considerazione #sàllo). Sto vedendo che il mondo dorato che tanti pensano ci sia dietro la scelta di lasciare l’Italia esiste davvero in pochissimi casi. Io ho fatto un’esperienza fin troppo semplice, per certi punti di vista: sai quando parti, sai quando torni. Pur avendo spesso provato quello che dici tu (pregavo ogni giorno che non ci capitasse nulla, perchè ti raccomando la sanità cinese…), sapevo però che c’era una fine. All’inizio più lontana, poi sempre più vicina.
    Io sono uno di quegli ex-espatriati che farebbe altre centomila volte l’esperienza, ma che altre centomila volte partirebbe con il biglietto del ritorno. Perchè, come dico nel sottotitolo del mio blog, sento di voler stare in Italia, nonostante l’italia.

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    1. Caro Stefano, grazie per il tuo commento. Io ritengo ci sia una differenza sostanziale tra chi parte con il biglietto di ritorno e chi no. Per esempio, e se ne discuteva anche tra expat qui in Argentina, chi viene a lavorare qui con una multinazionale, alloggio pagato, trasloco pagato, biglietti per tutta la famiglia per tornare a casa due volte all’anno, e la prospettiva di stare qui 2-3 anni affronta l’esperienza in una maniera completamente diversa da chi prende un biglietto di sola andata, spedisce qui le sue cose, butta/regala le vecchie e sa che dovrà farcela sulle sue gambe. E soprattutto, quelli che rientrano nel primo caso sanno benissimo che una volta tornati nel loro paese (nel 1° mondo) avranno già il lavoro che gli consente di tornare allo standard di vita di prima. In questo senso, il biglietto di ritorno è doppio! 😉 Sulla Cina ho seguito per anni questo blog: http://blog.libero.it/Nanjing/ Alla fine il tipo, un ingegnere come te, ha scritto un libro e ha smesso di aggiornare il blog anche perché la sua carriera (di ingegnere) è decollata e non ha più tempo di seguirlo. Tuttavia, con 200 e rotti post, ne hai da leggere!

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      1. Ciao Isa. Quell’ingegnere di cui tu parli lo conosco, perchè ho avuto occasione di lavorarci assieme quando ero anche io in Cina. Ho conosciuto la Cina tramite lui e le sue avventure, che poi alla fine diventano le avventure di molti di coloro che hanno fatto un’esperienza nella Terra di Mezzo.
        Sono assolutamente d’accordo, il biglietto di ritorno è il vero benefit o plus che un expat riceve quando parte. Io infatti stimo moltissimo coloro che sono partiti alla ricerca di qualcosa di nuovo.
        Ti tengo in considerazione per la seconda stagione della mia rubrica, che dici? Magari poi ti scrivo in privato, così ti spiego cosa vorrei fare.

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